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Welfare culturale e capacità generativa

La Treccani definisce il Welfare culturale come “un nuovo modello integrato di promozione del benessere e della salute e degli individui e delle comunità, attraverso pratiche fondate sulle arti visive, performative e sul patrimonio culturale”.
Ma cosa si intende per salute? L’OMS la definisce come “uno stato di totale benessere fisico, mentale e sociale” e non semplicemente “assenza di malattie o infermità”.
Muovendo da queste due definizioni possiamo dedurre l’importanza di riconoscere alla cultura il suo ruolo centrale nello sviluppo umano e sociale, per la salute (il benessere) del singolo e della comunità.

Il pezzo riporta dati molto significativi, ma trovo particolarmente centrato il focus sulla necessità di “relazioni sistemiche e sistematiche con altri ambiti di policy” in modo da non limitare l’approccio a frammentate oasi di buone pratiche.
Per questo occorrono maggiori investimenti, lungimiranza e sostenibilità per evitare di fare della cultura un uso strumentale, come espediente per ridurre i costi dei servizi sociali.

In un articolo per Il Giornale delle Fondazioni Pierluigi Sacco si raccomanda di usare il termine Welfare culturale “con consapevolezza e senso di responsabilità” e di dargli “lo spazio e il tempo di cui ha bisogno per crescere, maturare il proprio apparato di concetti e competenze, e per trovare una sua collocazione opportuna”.
Provo ugualmente a rischiare una riflessione, partendo dalla convinzione che non sia in discussione solo il ruolo centrale della cultura nella vita di ogni singolo individuo o la necessità di maggiore dialogo tra servizi, ma che l’urgenza sia anche la possibilità per tutti di sperimentarsi in qualche forma espressiva, a prescindere dall’età, dalle possibilità economiche o dal background formativo.
Anche così si combattono le disuguaglianze e si costruisce l’identità del singolo e della comunità che a sua volta acquista sempre più capacità generativa e scopre intrinseche possibilità innovative.

Per citare Rodari “Insisto nel dire che, sebbene il Romanticismo l’abbia circondato di mistero e gli abbia creato attorno una specie di culto, il processo creativo è insito nella natura umana ed è quindi, con tutto quel che ne consegue di felicità di esprimersi e di giocare con la fantasia, alla portata di tutti.

La cultura non è solo intrattenimento e il compito degli operatori culturali non è unicamente quello di facilitare la fruizione, ma piuttosto quello di dare la possibilità a tutti di diventare creatori-sperimentatori. Le pratiche di trasformazione attivate dalla cultura (sia essa fruita o sperimentata a livello amatoriale) generano cambiamenti a livello sociale perché in questa cornice si apre la possibilità di scoprire nuovi punti di vista, di essere più flessibili, di aprirci maggiormente agli altri e quindi di migliorare la comunicazione interpersonale. Perché allenare la creatività ha un potere capacitante che contribuisce al benessere del singolo, alla sua autodeterminazione, allo sviluppo del pensiero critico, dell’ascolto e quindi della cooperazione. Infatti valorizzare le risorse del singolo significa trovare risposte collettive a problematiche non solo individuali ma di gruppo.
Significa appunto aumentare il potenziale generativo della comunità.

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