Riflessioni a margine del corso COMPLESSO | COMPLICATO di cheFare

Terreno scivoloso. Perbenismo e ipocrisie dietro ogni angolo.
Ma parlare di democrazia culturale è necessario per allargare lo sguardo alle varie forme di complessità che caratterizzano la nostra società.

Le prime due giornate del corso di progettazione culturale di cheFare hanno offerto numerosi spunti di riflessione per indagare innanzitutto le motivazioni del fare cultura: rispondere ad un bisogno di senso o aderire ad un progetto di finanziamento che prevede un metodo più manageriale?
Le due dimensioni non si escludono a vicenda, ma trovano un punto di equilibrio a partire da un approccio esteso che assume la complessità come realtà da abitare e non come ostacolo da eliminare.

Come ha ricordato Ezio Manzini non esistono sistemi fissi, definiti e definitivi, e per questo il tutto rimane sempre intrinsecamente inconoscibile. Ma accettare il limite del nostro punto di vista si rende necessario per poter agire là dove possiamo.
Questa idea di un’interdipendenza radicale, per dirla con il fondatore di DESIS Network, implica naturalmente una dose di conflittualità a cui non possiamo sottrarci e per cui è fondamentale un’alfabetizzazione intellettuale ed emotiva per non incappare in un rifiuto della mediocrità che, come ci ha ricordato Giacomo Giossi, diventa un alibi per non affrontare la complessità. 

Ma dove si trova quello spazio di sintesi che permette alla progettazione culturale di diventare, così come proposto da Bertram Niessen, “mediazione culturale per ricucire pezzi di mondi e ricostruire forme di relazione”?

Valeria Verdolini ha parlato del margine come spazio di possibilità e non come il luogo di una privazione da colmare.
Infatti il confine, che pure identifica le diseguaglianze, se abitato, può diventare uno spazio di voce per rimettere in discussione i significati.
Certo, dobbiamo tenere conto della nostra non neutralità, del fatto che parliamo da una “posizione”, ma se mettiamo al centro dello scambio la conoscenza, allora possiamo “restituire al sapere la condizione di pratica di libertà”.
Il manifesto per la democrazia culturale proposto da Verdolini si basa su alcuni principi chiave:

  • un approccio anti-elitario;
  • la messa in discussione di modi dominanti e gerarchici di comprendere e governare la cultura;
  • un approccio antirazzista e anticlassista, contro ogni forma di discriminazione;
  • sostiene una società in cui tutti, comprese le persone e i gruppi attualmente più emarginati dalle forme di cultura dominante, hanno una voce in capitolo molto più equa e un ruolo attivo e produttivo quando si tratta di produrre (e riprodurre) la cultura.
©fotografierende

Un approccio di questo tipo porta a riflettere sulla partecipazione, perché è interessante considerare cosa significa questo termine e il motivo per cui lo usiamo sempre con un’accezione positiva, con una valorizzazione a priori.

Claudio Paolucci ha proposto un’osservazione della parola partecipazione come uno dei cliché dietro i quali ci nascondiamo e che “parlano al posto nostro”.
Dobbiamo infatti interrogarci sul rapporto tra sapere e potere, sulla dicotomia che esiste tra esperienza e conoscenza.
Ad esempio le fake news esistono da tempi lontanissimi, ma la loro diffusione capillare è frutto proprio della cultura partecipativa, in cui chiunque può produrre contenuti e il potere dell’informazione non è più in mano solo a chi detiene il potere politico e culturale.

E’ evidente che questo fenomeno, ormai irreversibile, ha dei lati positivi, ma se l’attenzione si sposta dal prodotto finale al processo (la possibilità per tutti di partecipare), allora c’è il rischio di non riconoscere più nemmeno la propria voce.
Perché si passa da quella che Eco definiva “guerriglia semiologica” a una situazione in cui il sistema orizzontale diventa una rete che ingloba anche le possibilità di dissenso. E per questo Paolucci ha sottolineato il “pericolo dell’immunizzazione che vanifica la forza d’urto di ciò che vogliamo escludere”.

Il cerchio si chiude tornando alle riflessioni proposte in partenza in cui si sottolineava il significato politico della progettazione culturale in un mondo che non prevede più situazioni standardizzate, né a livello sociale, né in termini di forme cognitive per cui la nostra dieta mediale è ormai fatta di bolle in base alle quali la nostra percezione viene definita.

La progettazione culturale, come ci ha ricordato Federica Vittori, può trasformare la realtà, ma anche la nostra visione: se dopo il nostro intervento nulla è cambiato, forse dobbiamo tornare ad interrogarci su quale sia il nostro movente. E come ha proposto Manzini tornare ad un nuovo “umanesimo non antropocentrista”. 

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