Dalla mia esperienza personale come performer e cantautrice è nata nel tempo una sempre maggiore consapevolezza del valore della musica, e dell’arte in generale, come tramite privilegiato per lo sviluppo di capacità espressive e a sostegno della formazione dell’identità del singolo e del gruppo.
Da qui nasce allora il desiderio di proporre un’offerta formativa che vada nella direzione di un sostegno non tanto dell’acquisizione di specifiche abilità tecniche, quanto piuttosto dell’esplorazione di mondi interiori e possibilità di dialogo. 

Le arti performative hanno il potenziale di strumenti creativi capaci di trasformazione, sia a livello personale che nel più ampio contesto della società contemporanea.
Al di là delle cornici istituzionali e/o accademiche, l’arte non è appannaggio esclusivo di chi padroneggia tecnica e metodi, ma si tratta piuttosto di un linguaggio che spesso si definisce universale, forse a volte in maniera troppo sbrigativa. 

Per questo motivo più che universale, preferisco recuperare l’aggettivo ecumenico e il suo significato etimologico di “concernente tutte le terre abitate” (dal latino tardo oecumencus, gr. οἰκουμενικός dal verbo οἰκεὠ, abitare). In quest’ottica l’arte diventa un linguaggio che riguarda l’insieme delle persone che abitano la terra, anche se – non per questo – si tratta di un linguaggio automaticamente uguale per tutti o completamente ovvio, immediatamente apprezzabile. Talvolta il processo di osservazione necessita di mediazioni, a patto di superare pregiudizi e codici preconfezionati. 

Infatti, se da un lato è evidente che conoscere il contesto storico o il sistema di riferimento di una determinata opera possa favorirne la comprensione, è davvero una cognizione esatta a regalarci l’emozione? Siamo sicuri che siano paradigmi e norme a parlare al nostro bisogno di bellezza? E’ veramente necessario conoscere tutti i dettagli di un metodo per essere travolti dal calore che emana e riaccende nostalgie, souvenir dal profondo? Perché performativa non è solo l’azione dell’artista, ma plasmano l’opera anche i moti interiori di chi osserva: i gesti dell’anima che contribuiscono alla creazione di quello specifico momento. 

Sul concetto di arte democratica potremmo discutere per ore con il rischio di arenarci su polarità opposte e troppo semplificatorie. Perché non considerare allora la possibilità che l’esperienza artistica (sia quella del performer, sia quella dello spettatore) possa essere un grande cantiere di educazione al pensiero critico, all’ascolto e all’espressione? 

Partendo da questo presupposto non dovrebbero esistere confini tra il nostro desiderio di esprimerci e l’effettiva capacità di dominare uno strumento o una tecnica. Certo, lo studio e il talento sono imprescindibili quando si tratta di intraprendere una carriera professionale, ma nessuno può precluderci la possibilità di provare, di rischiare, di esplorare mondi sconosciuti e di dare un nome tutto nostro alle emozioni. 

Per questo motivo sono convinta che la fruizione e la pratica delle arti, in ogni forma, anche a livello amatoriale, possano contribuire ad una maggiore consapevolezza di sé e del proprio mondo interiore. E anche il mondo circostante, entro i cui confini tentiamo risposte e aggiustiamo il nostro ritmo, potrebbe apparire un po’ meno confuso: l’arte ci costringe ad uscire da noi, a guardare, ad ascoltare, a non fermarci alle apparenze per poter cogliere significati e sensi profondi. Senza necessariamente trovare tutte le risposte, ma imparando a fare domande per non fermarci in superficie. Secondo Annamaria Testa lo stesso atto di porsi domande è “creativo: l’espressione di un atteggiamento che comprende curiosità, pensiero indipendente, apertura mentale, capacità di negoziare con il caos e l’incertezza”.
La società contemporanea tende invece a rifiutare la complessità e a rifugiarsi in un manicheismo frutto di una pigrizia indolente e priva di curiosità. Ma senza spaventarci, può il diverso aprirci a panorami nuovi e regalarci punti di osservazione inattesi? 

L’approccio creativo rafforza il pensiero critico che quindi non si ferma a quello che è sempre stato, ma ci apre alla possibilità di quello che potrebbe essere. In questo modo diventa possibile il superamento degli stereotipi, intesi come modelli osservativi, cioè schemi mentali acquisiti o ripetuti per necessità o comodità, che però tendono a semplificare ed appiattire la realtà su livelli bidimensionali (bello/ brutto, buono/cattivo). Ciò che implica questo metodo è la necessità di recuperare il significato di flessibilità come atteggiamento che ci permette di adattarci a situazioni e condizioni diverse. E lì dove si incontrano creatività e flessibilità possiamo ristrutturare la nostra esperienza alla luce di alternative inesplorate e inaspettate. Questo stile comportamentale diventa fondamentale per affrontare i cambiamenti che ognuno di noi si trova prima o poi a vivere, oltre ad aiutarci a sviluppare potenzialità che aumentano il nostro benessere personale. 

L’obiettivo è innescare (o implementare e sostenere) un cambiamento di prospettiva, un’osservazione che consideri la molteplicità e al tempo stesso valorizzi le singole personalità e caratteristiche di espressione. Perché, secondo la definizione dei filosofi Colamedici e Gancitano, stupirsi del mondo “non è il momento in cui tutti i puntini si uniscono, ma l’istante in cui il disegno si sparpaglia in infiniti puntini”. E da questo stupore, da questa meraviglia, può nascere una nuova consapevolezza di sé e del mondo.